DELLA FATAL QUIETE 

Musiche: Beppe Giampà
Arrangiamenti: Manuel Daniele e Beppe Giampà

Beppe Giampà: Voce e Chitarra Acustica
Marco Genta: Pianoforte e Fisarmonica
Manuel Daniele: Chitarre
Luca Zampieri: Percussioni
Martina Cavaleri: Violino

Registrato e mixato presso Fonderiefoniche da Manuel Daniele
Foto di copertina e libretto: Giancarlo Gk Rocco
Progetto Grafico: Lorenzo Omedè

Download digitale: ITunes – Amazon – Spotify

“Della fatal quiete” è un album contenente dieci poesie musicate e cantate da Beppe Giampà, di alcuni dei più importanti poeti italiani nati nel 1800 (fatta eccezione per Fernando Pessoa). Prodotto in parte da una campagna di crowdfunding che ha coinvolto 44 co-produttori ed associazioni provenienti da Italia, Francia e Belgio. Nel 2017 le canzoni contenute nell’album sono state colonna sonora dello spettacolo “Io nel pensier mi fingo

Testi

San Martino (Giosuè Carducci, 1883)

La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.

La petite promenade du poète (Dino Campana, 1913)

Me ne vado per le strade
Strette oscure e misteriose:
Vedo dietro le vetrate
Affacciarsi Gemme e Rose.
Dalle scale misteriose
C’è chi scende brancolando:
Dietro i vetri rilucenti
Stan le ciane commentando.

La stradina è solitaria:
Non c’è un cane qualche stella
Nella notte sopra i tetti:
E la notte mi par bella.
E cammino poveretto
Nella notte fantasiosa,
Pur mi sento nella bocca
La saliva disgustosa. Via dal tanfo
Via dal tanfo e per le strade
E cammina e via cammina,
Già le case son più rade.
Trovo l’erba, mi ci stendo
A conciarmi come un cane:
Da lontano un ubriaco
Canta amore alle persiane.

Alla luna (Giacomo Leopardi, 1820)

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
0 mia diletta luna.

E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri.

A Zacinto (Ugo Foscolo, 1803)

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

Tedio invernale (Giosuè Carducci, 1875)

Ma ci fu dunque un giorno
Su questa terra il sole?
Ci fur rose e vïole,
Luce, sorriso, ardor?

Ma ci fu dunque un giorno
La dolce giovinezza,
La gloria e la bellezza,
Fede, virtude, amor?

Ciò forse avvenne a i tempi
D’Omero e di Valmichi:
Ma quei son tempi antichi,
Il sole or non è piú.

E questa ov’io m’avvolgo
Nebbia di verno immondo
È il cenere d’un mondo
Che forse un giorno fu.

Pianto antico (Giosuè Carducci, 1871)

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.

Alla sera (Ugo Foscolo, 1803)

Forse perché della fatal quiete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Non sto pensando a niente (Fernando Pessoa, 1935)

Non sto pensando a niente, 
e questa cosa centrale, che a sua volta non è niente, 
mi è gradita come l’aria notturna, 
fresca in confronto all’estate calda del giorno.

Che bello, non sto pensando a niente!

Non pensare a niente 
è avere l’anima propria e intera. 
Non pensare a niente 
è vivere intimamente 
il flusso e riflusso della vita…

Non sto pensando a niente. 
È come se mi fossi appoggiato male. 
Un dolore nella schiena o sul fianco, 
un sapore amaro nella bocca della mia anima: 
perché, in fin dei conti, 
non sto pensando a niente, 
ma proprio a niente, 
a niente…

Lavandare (Giovanni Pascoli, 1891)

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l’aratro in mezzo alla maggese.

Infinito (Giacomo Leopardi, 1819)

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.